Cingolani vs Avvenire. Sovrappopolazione e formula IPAT
Torno sulle dichiarazioni del ministro Cingolani sulla "sua" transizione ecologica che avevo commentato già qualche giorno fa.
Interessante il commento critico nei confronti del ministro scritto da Marco Morosini, che è comparso sul portale del quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, l'Avvenire.
Morosini,
che è un ambientalista di valore, prende però quella che secondo me è una cantonata demografica.
Morosini se la prende con Cingolani perché parla della Terra come di un pianeta
"progettato per tre miliardi di persone". Riporto per intero la frase:
[…] ha detto il Ministro: «C’è un problema di
sostenibilità di un ecosistema che è quello del pianeta progettato per 3
miliardi di persone». Progettato? E chi lo avrebbe progettato? Perché tre
miliardi e non uno o dodici? «... tre miliardi di persone...». Quali persone?
Africani o Nordamericani, che consumano dieci volte più degli Africani? Eppure
è semplice: sulla Terra c’è posto per tante persone se consumano poco, e per
poche persone se consumano tanto. Il concetto è espresso dalla cosiddetta
regola Ipat: l’Impatto ecologico è dato dalla grandezza della Popolazione,
moltiplicata per il consumo materiale (Affluence), moltiplicata per il tipo di
Tecnologia. È per questo che le stime scientifiche del numero di abitanti che
possono vivere sulle Terra vanno da un miliardo a mille miliardi.
La frase
del ministro è effettivamente infelice, quel "progettato" non si sa
bene cosa significhi. Ovviamente ci si riferisce alla capacità di carico
globale relativa alla popolazione di Homo sapiens. E dire che la
popolazione massima all'interno della capacità di carico è di tre miliardi
significa semplicemente dire che, pochi anni dopo il momento in cui abbiamo
superato i tre miliardi di individui, fatto avvenuto all’inizio degli anni '60
del secolo scorso, secondo il Global Footprint Network, abbiamo superato la domanda di risorse[1] naturali che il
pianeta ci può offrire, fatto avvenuto verso la fine dello stesso decennio. Quindi in principio Cingolani non dice una cosa
sbagliata, la dice male, da tecnocrate e non da naturalista, ma forse è la cosa più giusta che dice.
Morosini
gli fa notare che la misura dell'impatto ecologico, quella misurata dalla
formula IPAT:
Impronta Ecologica = Popolazione x Affluence x Tecnologia
oltre alla
variabile Popolazione comprende anche quella dell’Affluence, termine che
definisce il consumo materiale pro-capite, e la Tecnologia, un termine
ambivalente nel senso che grazie all’efficienza può portare al cosiddetto
disaccoppiamento fra crescita e consumo.
È chiaro che, a parità di Tecnologia, con una bassa A si può avere una I sostenibile con una
Popolazione relativamente alta. Detta questa ovvietà non posso sottoscrivere l’iperbole
demografica di Morosini. Il quale dice che, infatti (cioè grazie all'esistenza di due variabili su cui si può agire, P e A) le stime "scientifiche" della popolazione umana possibile sul pianeta variano fra 1 e 1000
miliardi. 1000 miliardi? Una popolazione corrispondente ad una densità di 7000
persone per Km quadro delle terre emerse. Una situazione in cui ogni persona
avrebbe a disposizione 143 metri quadri delle terre emerse sui quali, si
suppone, dovrebbero ricevere ospitalità anche tutti gli altri organismi
viventi, microrganismi, animali e vegetali. E questa sarebbe una stima
scientifica? Un modo evidentemente fuorviante di criticare il ministro per la
sua affermazione sulla popolazione.
Ma questa non è la mia critica principale alle considerazioni demografiche di Morosini. In effetti il punto principale è che Morosini sembra considerare l'impronta ecologica di una data popolazione come statica, cioè come se l'africano che nasce oggi ereditasse una data impronta ecologica che si porta dietro come il colore della pelle.
Non è così, l’impronta
ecologica è un indicatore di impatto ambientale della popolazione che non è
statico. Evolve nel tempo, storicamente. Non è che gli africani che nascono
oggi avranno, e soprattutto accetteranno di avere, l'impronta ecologica dei
loro genitori. Al contrario tutti attualmente tendono a raggiungere l’Affluence
americana e, in subordine, quella europea. Quindi se è sicuramente un problema che l'americano e l'europeo abbiano un'impronta ecologica esagerata, è un problema anche l'aumento della popolazione di coloro che hanno un'impronta scandalosamente bassa, ma che, giustamente, aspirano a farla aumentare. Quindi parlare di limiti della
popolazione è più che necessario.
Se fossimo
in un mondo ideale, le politiche da applicare sarebbero relativamente semplici.
Le società economicamente sviluppate che hanno una popolazione statica o in
declino, dovrebbero assecondare il processo, governando l’invecchiamento
temporaneo della popolazione con adeguate politiche di mitigazione. Nel transiente
storico in cui la popolazione invecchia, in attesa che si stabilizzi ad un
livello numerico più basso, il sistema pensionistico, ad esempio, diventa
obsoleto e non più sostenibile se si continua a guardare il rapporto fra attivi
e vecchi. Ma se si guarda il rapporto fra attivi e inattivi, fra i quali ci
sono anche giovani e bambini, le cose migliorano perché la quota di giovani e bambini diminuisce. Allora bisogna capire che si
deve fare uno sforzo temporaneo per trasferire risorse dalla cura dell’infanzia
e della gioventù alla cura degli anziani. Politiche che probabilmente non sono
molto eccitanti dal punto di vista psico-politico. Un esempio? Per diversi
decenni ci sarà sempre meno bisogno di insegnanti e di strutture educative di
tutti i livelli, come pure di altre infrastrutture pensate e realizzate per le
esigenze di chi attraversa la prima parte della vita. Si potrebbe, ad esempio, puntare sulla
qualità dell’educazione piuttosto che moltiplicare quantitativamente materie di
studio e insegnanti come si è fatto finora.
L’obiezione
più comune a questo tipo di ragionamento è che le società che invecchiano
diventano meno innovative. Può darsi, ma pazienza. Abbiamo qualche secolo di
passata innovazione di cui avvalerci, nel frattempo potremmo approfittare della
più grande innovazione possibile alla fine dell’era moderna, quella di diventare saggi
oltre che sapiens. Come, nella tradizione, sono saggi i vecchi.
Le politiche
dei paesi poveri e in via di sviluppo dovrebbero accelerare il processo di
riduzione della natalità (già in atto un po’ ovunque), fornendo, con l’aiuto dei paesi sviluppati, tutti i mezzi di contraccezione moderni che
le donne conoscono e desiderano avere, restituendo alla donna il pieno
controllo della propria vita e della propria fertilità attraverso il noto e declamato processo di empowerment che passa
principalmente attraverso l’accesso all’educazione e al lavoro.
Tutto questo determinerebbe anche ad un processo di redistribuzione della ricchezza all'interno di una popolazione globale che tende lentamente a diradarsi.
Invece di
discutere anche queste cose tutti, benpensanti e malpensanti, si concentrano
sui due fattori dell’Impronta Ecologica, il consumo (Affluence) e la
tecnologia, così possono discettare sulla ricchezza scandalosa dei ricchi e sulle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo tecnologico, pur di non affrontare il tabù della sovrappopolazione e,
quindi, della riproduzione e, quindi, della sessualità umana e della persistenza del patriarcato.
[1] Nel grafico che ho linkato, sul portale
del Global Footprint Network, si vede la biocapacità aumentare nel tempo. La
biocapacità è definita, nel quadro delle stime dell’Impronta Ecologica del
Global Footprint Network, come l’offerta di risorse in grado di soddisfare la
domanda da parte dell’umanità in termini di cibo, materiali, fibre, biomassa e
capacità di depurazione e assorbimento delle emissioni. Il fatto che cresca nel
tempo rispecchia la messa a coltura di nuove terre, il che, dal punto di vista
ecologico non è generalmente una buona notizia anche perché mettere a coltura
nuove terre significa quasi sempre deforestare.
"Parlare di limiti della popolazione è più che necessario"
RispondiEliminaAffermazione da scolpire nel marmo e da diffondere/promuovere il più possibile